Tra le prime forme di “dipendenza senza sostanza” ad essere contemplate, il gioco compulsivo ha certamente attirato l’attenzione di molti studiosi, psichiatri ed esperti della comunicazione, che hanno cercato di tracciarne un profilo in modo da poter riconoscere il semplice appassionato da chi cerca di evadere da una situazione percepita come particolarmente pesante o intollerabile in famiglia, con gli amici, nelle relazioni sentimentali o in uno qualsiasi degli ambiti della vita della persona.
Molto spesso il discrimine tra passione e dipendenza compulsiva vera e propria è rappresentato proprio da questa sottile differenza: l’appassionato ha vaste competenze in merito al gioco, sia esso d’azzardo classico o digitale, ed è capace di spaziare tra varie attività alternando senza alcun problema, con la propria volontà, il tempo trascorso dedicandosi all’attività ludica e quello dedicato alla cura personale o ad altri impegni.
Nel caso di un vero e proprio ludopata (così è definito colui che non ha possibilità di controllare coscientemente i propri impulsi che lo spingono a sfogarsi sul gioco), questo meccanismo di filtraggio mentale viene completamente bypassato, iniziando a ritenere il gioco non più come un piacevole intrattenimento creativo, bensì come valvola di sfogo per qualsiasi problema, perdendo il vero senso di quanto sta accadendo, con cause certamente differenziate da persona a persona.
La dipendenza da gioco è quindi costituita da un insieme di fattori spesso non analizzati a fondo, tendendo quindi a effettuare erroneamente “diagnosi di patologia” in soggetti appassionati che riescono a governare i propri impulsi. Il giocatore patologico è invece riconoscibile dall’atteggiamento distruttivo, dalla fiducia incondizionata nella sua fortuna e dal falso senso di invincibilità e di immunità ad ogni perdita, perpetuando un ciclo in cui anche la percezione di sé viene alterata in maniera significativa.